04/12/09

Discoteca permanente

Gli anni passano, i Natali si ripetono e se tralasciamo il calcolo dei lievi scarti dovuti alla rotazione dell'asse terrestre, secondo quella che viene chiamata precessione degli equinozi, possiamo affermare che la cosa avvenga ormai con una certa regolarità. Figlio d'arte e svenduto alla comicità popolare non tanto per carenza di doti interpretative ma per l'adozione di copioni riduttivi, la copia fotostatica di un grande attore smentisce anche sul brevissimo termine l'ambizione umana della genetica come strumento di controllo del destino degli individui, creando gag destinate non solo a non restare nel tempo, ma anzi dotate di quell'intrinseca obsolescenza che tenta di denudare la comicità e farla diventare istinto di risata riflessa, vacuo trastullo visuale, riproposizione di cliché sfruttati, piuttosto che archetipici, ribadimento dell'ovvio per allentare la tensione di psicologie ormai incapaci della risata armoniosa che riconcilia con i limiti, alla ricerca dell'isterica derisione dello scemo del villaggio ottima valvola di sfogo rappresentata da chi nell'incubo discotecaro maschilista ha trovato habitat e contemporaneamente prigionia artistica sempiterna. Al fianco del vitellone italiano d.o.c. utilissimo a far sembrare meno grezzi tutti i suoi eteronimi all'ascolto, dislocati negli antri extralusso della decadenza da balera estesa a pesantissimo modello di vita 24h, la necessaria preda femminile. Delle labbra sproporzionate e della malcelata complicità con la goffaggine del maschio su di giri resta ben poco, la soubrette, oltrepassati ruoli che l'hanno erosa e sovraesposta abbassandola al ruolo di bambola inanimata, partecipa e si offre alla telecamera lasciando come unici appigli al dubbio, oltre allo sguardo tristissimo, una lettera pubblicata sulla stampa nazionale con la quale ha raccontato una tantum le sue difficoltà per riuscire ad ottenere il permesso di soggiorno in Italia, nei primi anni della sua carriera. L'accento straniero è funzionale all'eterno cinepanettone routinario, l'esotismo di tratti e voce perpetua il marchio di fabbrica di un trentennale manipolo di furbacchioni che fanno umorismo anti-sociale, inneggiando ai vetusti feticci dell'avventura erotica spregiudicata, del carpe diem consumistico, di un finalismo volgare e arrivistico che mette in burla puerili forme esteriori uccidendo di fatto la comicità stessa, capace di ben altra profondità, quando dei buoni autori la scelgono come canale narrativo. Nulla resterà della parata sovrabbondante di ragazze in coreografia che per il loro semplice impatto visivo diventano per forza di cose extra-diegetiche: non ornamento giustificato nella cornice, l'impossibile allestimento di uno spettacolo pedissequamente natalizio, ma al suo esterno, nell'occhio del telespettatore avido dell'attrito della festività sul proprio cuore indurito da tutto il resto della propaganda. Esempio di grottesco inconsapevole, questa falsa vitalità al limite dell'isteria abbandona lo spettatore ad una scelta sbrigativa: affezionarsi ad un modello di istrione antitetico disastrosamente carente, oppure augurarsi che la caduta fuori campo sia provvidenzialmente avvenuta su un pietrone nascosto dalla neve, causando al personaggio una commozione cerebrale che gli impedirà di performare negli spot successivi. Ma dicembre è ancora lungo, la macchina proseguirà e prima o poi la donna verrà conquistata, baciata, dimenticata, in favore del prossimo fronte di mercato.

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