21/12/09

È tutto oro quel che luccica

Primissimi piani seguono le fasi di assemblaggio del cioccolatino, sottolineando l'esclusività degli ingredienti utilizzati grazie ad una retorica basata sull'irresistibile ritmo del tre, mentre close-up disperati cercano di scagionare una volta per tutte i misteriosi contenuti dell'alimento da ogni forma di sospetto, trasformando il processo di lavorazione dello stesso in una vera e propria incarnazione ricca di magia, narrata tramite una slow motion che ingigantisce ulteriormente gli oggetti della ripresa, in virtù dell'effetto oversampling che miniaturizza forza di gravità e tensioni superficiali dei liquidi. Un dolciume di tal schiatta si meritava un rivestimento in oro, e quasi non ci si accorge della metafora in atto: di vero oro è ricoperto, all'interno della narrazione, proprio in virtù della sua preziosità raccontata dall'invadente gas musicale diffuso da un'orchestra prezzolata, e subito immaginiamo blindatissimi furgoncini portavalori che sfrecciano nottetempo sulle principali autostrade italiane, diretti alle sedi dei principali istituto di credito per traghettare non già riserve aurifere, ma consistenti provviste di Ferrero Rochet. L'oro, ancora l'oro illumina gli sguardi avidi di moderni cercatori, intenti ancora a sterminare popolazioni innocenti e a setacciare corsi d'acqua fangosi, anche se al posto delle Indie e dell'Alaska, dei vasti orizzonti e della guerra d'espansione, esaurito ormai il territorio, resta il confine interno: la famiglia, i rapporti interpersonali, persone speciali in giorni speciali decretati da una gerarchizzazione top-down. Ferrero scaglia contro alle mura del consumatore sotto assedio i cadaveri di alcuni dei suoi caduti per abbatterne il morale, ecco apparire la nonna canuta e la nipotina bionda, spiacciate sulla trasparente parete televisiva, mentre una pergamena legata alle salme consegna a ripetizione le indicazioni del copy: prodotto speciale, per persone speciali, in un giorno speciale. Preparato il terreno con queste scandalose indicazioni morali, lo speaker si impenna e con un miracolo della balistica dà del "lui" al prodotto, personificandolo (cioè proiettandolo sull'ascoltatore), e colpendo al "cuore" tanto citato la coscienza, alludendo all'elettività della relazione monogama, che si vuole super-partes, mossa da sentimenti ineffabili, slegata da ogni necessità e opportunismo (come se non fossero inevitabili costrizioni del vivere), rendendo insomma il rapporto di coppia uno statuto archetipico e sovrannaturale. È necessario giudicare il vissuto precedente ("nella vita ti possono piacere in tanti") per giustificare l'estemporanea professione di un rapporto esclusivo ("ma solo uno ti ruba il cuore"). Su questa gigantesca ipocrisia si fonda esattamente quella famiglia destinata a generare la carne da macello della psichiatria, figli di coppie in crisi, o divise, ma fondamentalmente figli di coppie che, aldilà dell'umanissima paura della solitudine, non avevano veri motivi d'essere. Che l'industria (dell'intrattenimento e non) si faccia carico della motivazione al nucleo familiare è chiaro sintomo della mancata autonomia dello stesso, e a detta di alcuni della mancata motivazione alla vera e propria necessarietà dello stesso. Che l'industria si preoccupi di generare edificanti allegorie sociali pralinate alla nocciola è chiaro sintomo che l'oggetto di cui si parla ha un futuro concreto soltanto nella letteratura mediatica. Che l'industria arrocchi sugli istituti fondamentali della società operando un casting che privilegia un volto maschile mediocre, uno squarcio di "reality" che edulcori il destino della massaia incline, fino a quel momento, ad immaginarsi il volto di Clooney sovrapposto a quello del proprio uomo per considerarlo come un valido partner sessuale, è chiaro sintomo della mancata cittadinanza della realtà dalla società dello spettacolo. Non si possono vendere o propagandare normalità, stabilità, libertà di pensiero o altri beni immateriali che richiedono non l'acquisto di un prodotto, ma una vera e solida società alle spalle, perché una società del genere non avrebbe bisogno di questi infingimenti consolatori, e guarderebbe al prodotto per quello che vale: il tempo sociale necessario a produrlo. Non servirebbe ulteriore tempo per descriverlo, consigliarlo o magnificarlo: indugiare oltre sarebbe solo una perdita, e non un valido investimento, in una comunità che non fosse schiava dell'autoinganno consumistico eretto contemporaneamente a fine e mezzo per ottenere nient'altro che se stesso. Ed ecco che trasformato l'amore in un sentimento maiuscolo, quindi in una merce ben riconoscibile, questo sarà a disposizione di tutti i mediocri del mondo, disposti a concedere a poche frasi lapidarie il riscatto di vacue dimostrazione d'Amore concretate dall'acquisto di beni esclusivi, in un definitivo e devastante marketing interpersonale, permeabile ad ogni suggestione, e disponibile, per la natura stessa del mercato bisognosa di primati e feticci, anche al conflitto più atroce, persino nel sancta sanctorum dell'unione dei fenotipi destinati a perpetuare la specie. Quella stessa possessività assassina degli efferati crimini passionali, studiati come casi clinici appartenenti alla straordinarietà in pruriginosi pamphlet giornalistici, ma dei quali vengono deliberatamente taciute le vere preconizzazioni su larga scala, come se il fatto che queste siano già sotto agli occhi di tutti garantisse anche che vengano interpretate correttamente da tutti.

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